domenica 20 settembre 2009

Nascita e morte della Socializzazione delle Imprese

Con questo elaborato vorrei porre l'attenzione sul clima in cui venne presentata l'idea della socializzazione durante la Repubblica Sociale Italiana, analizzando i contesti, il clima, e le circostanze in cui questo progetto venne partorito, e i nemici che l'arrestarono.

Uno dei campi in cui il Fascismo operò maggiormente fu quello che concerne il rapporto che nell'economia di una nazione esiste tra la forza economica e la forza produttiva, tra imprenditori ed operai.
Il ventennio fu quindi caratterizzato da una serie di riforme in questo ambito tra cui le più importanti furono la stesura della Carta del Lavoro e la creazione dello Stato corporativo.
Ma l'uomo è ben lungi dall'essere giusto e perfetto, ed ecco che si creano le strade che porteranno alla caduta del regime il 25 Luglio del 1943: tra esse non si può ignorare l'operato dei grandi industriali, che vedevano il loro potere ridimensionato, e di quegli opportunisti, facilmente dediti al voltafaccia, che andarono a ricoprire vari incarichi perché era loro conveniente in quel particolare momento.

Certamente nel periodo della prigionia Mussolini ebbe modo di riflettere sulle cause che avevano portato alla caduta del regime.
Il 12 settembre viene liberato dal Gran Sasso e un paio di giorni dopo viene portato nel nord della Germania per incontrare Hitler. Probabilmente il Duce è poco ottimista riguardo al suo futuro e i vari tradimenti subiti contribuiscono ad accrescere in lui la sensazione di esser rimasto solo:
«Non era completamente sicuro di se e sin dalle prime frasi già si poteva capire che si considerava ormai fuori dalla partita, o almeno desiderava restarvi».
Ma qui trova i gerarchi che gli son rimasti fedeli, tra cui Ricci, Farinacci, Preziosi e Pavolini, con quest'ultimo che parla a nome di tutti:
«Il governo provvisorio nazionale fascista attende la ratifica del suo capo naturale: solo dopo si può annunciare la composizione del governo».

Mussolini, certamente stupito, replica:
«La vostra opera è degna di lode. Bisogna però, camerati, ricominciare da zero anzitutto nel campo politico, militare e sociale... Nel campo sociale bisogna essere capaci finalmente e decisamente di rivolgersi al popolo: oggi vi è possibile compiere questo programma nel quale io per moltissime ragioni, di cui molte a voi ignote, ho fallito».

La notte viene passata discutendo sugli ultimi eventi e sui programmi futuri:
«In questi colloqui furono poste le basi del nuovo Stato».
Si vogliono assolutamente evitare gli errori passati: «Riconosco che il sistema dall'alto è fallito. Perché sono falliti gli uomini. Non il fascismo, gli uomini».

Uno dei settori in cui maggiormente si dovrà lavorare è quello sociale, e ciò lo si intuisce fortemente nel discorso che Mussolini fa alla radio il 18 settembre a Monaco:
«Dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi giunge la mia voce... Ho tardato qualche giorno prima di indirizzarmi a voi, perché dopo un periodo di isolamento morale era necessario che riprendessi contatto col mondo... Quanto alle tradizioni ce ne sono di più repubblicane che monarchiche. Più che dai monarchici la libertà e l'indipendenza dell'Italia furono volute dalla corrente repubblicana e dal suo più puro e grande apostolo, Giuseppe Mazzini. Lo Stato che noi vogliamo instaurare sarà nazionale e sociale nel senso più alto della parola, sarà cioè fascista risalendo così alle nostre origini. Nell'attesa che il movimento si sviluppi sino a diventare irresistibile i nostri postulati sono i seguenti.... .... 4)Annientare le plutocrazie parassite e fare del lavoro finalmente il soggetto dell'economia e la base infrangibile dello Stato».

I progetti in ambito economico vengono ribaditi da Pavolini in un discorso che tiene il 28 ottobre del '43, anniversario della Marcia su Roma:
«Per decisione del Duce, in una vicina riunione il partito preciserà le proprie direttive programmatiche sui più importanti problemi statali e su quelle nuove realizzazioni da raggiungere nel campo del lavoro, le quali, più propriamente che sociali, non abbiamo alcuna peritanza a definire socialiste».

La riunione a cui allude è ovviamente il Congresso di Verona, in programma il successivo 14 novembre. Il manifesto dello stesso, i cosiddetti 18 punti di Verona, venne elaborato da Pavolini e sottoposto a Mussolini.
Qualche modifica venne apportata da Rahn, Ambasciatore tedesco in Italia che seguirà da vicino il cammino della nuova Repubblica Sociale:
«Il manifesto del partito è stato steso con la mia collaborazione, e sono stato costretto ad attenuare le originarie tendenze molto accentuatamente socialiste nell'interesse del mantenimento dell'impresa privata nella produzione bellica, e inoltre a cancellare un pezzo inserito dal Duce sulla preservazione della integrità territoriale ».

Il 13 novembre, in un articolo diffuso dalla stampa, Mussolini commentava così il manifesto:
«La riforma sociale in atto... sarà la più alta realizzazione del fascismo: squisitamente umana e assolutamente italiana, riallacciantesi cioè alle secolari tradizioni del nostro umanesimo e del mazzinianesimo, nella sua essenza spirituale e risolvendo in modo totale e definitivo le necessità e le aspirazioni delle classi lavoratrici... Il fascismo, liberato da tutto quell'orpello che ha rallentato la sua marcia e dai troppi compromessi che le circostanze lo hanno obbligarono ad accettare, è ritornato alle sue origini rivoluzionarie in tutti i settori, e particolarmente in quello sociale».

La nuova Repubblica che stava per nascere mancava di qualsiasi struttura amministrativa, dato che il governo Badoglio aveva smantellato tutte le istituzioni fasciste eccetto i sindacati fascisti dei lavoratori.
Vi era quindi la possibilità di ricominciare da zero facendo esperienza degli errori del passato. Tuttavia si profilava all'orizzonte il problema degli ambienti tedeschi che oramai, dopo l'8 settembre, non nutrivano più alcuna fiducia verso gli italiani e reputavano il ritorno in scena del Duce un ostacolo contro il controllo tedesco dell'Italia. A persistere, ormai, era solo la forte amicizia e stima che legava Hitler a Mussolini.

Per attuare le nuove riforme sociali venne formato il Ministero dell'Economia Corporativa che venne guidato dall'ingegnere chimico Angelo Tarchi. Il 13 gennaio del '44 venne votato dal Consiglio dei Ministri un documento intitolato “Premessa fondamentale per la nuova struttura dell'economia italiana” che costituiva di fatto il nuovo ministero e che modificava i punti più estremisti del manifesto di Verona.
Era essenziale osservare come avrebbero reagito i tedeschi; il 10 febbraio '44 Tarchi si incontrò con Rahn ed il giorno seguente riferì a Mussolini:
«L'Ambasciatore, pur confermando e mettendo in evidenzia la sua adesione personale e politica alla realizzazione, ha sottolineato che questa, soprattutto perché non sufficientemente conosciuta nella sua vera portata, se non attraverso disparate interpretazioni dei giornali, o sporadiche, arbitrarie soluzioni di carattere provinciale, non trova adesione, né dei militari, né dei commissari per le zone delle Prealpi e della fascia litoranea adriatica.... (tuttavia) ritiene anche logico che dopo la vostra “Premessa” la vostra concezione sociale abbia finalmente il suo reale sviluppo; ma poiché questo ha indubbie ripercussioni al di là delle Alpi e al di là della Germania, tanto meglio sarà se essa nella sua priorità italiana troverà il consenso anche nelle alte sfere politiche germaniche».

Rahn temeva che vi potesse essere un intervento militare tedesco per impedire la divulgazione e l'attuazione del documento riguardante la socializzazione.
In effetti la Germania non voleva che si andasse ad ostacolare il loro controllo sulla produzione bellica a cui molte industrie italiane erano state convertite.
Il Ministro italiano consigliava quindi al Duce, prima di pubblicare il documento, di trattare la questione nel Consiglio dei ministri; nel frattempo Rahn avrebbe tentato, come dice il Duce, di «superar l'ostacolo frapposto e al quale non è stata certamente estranea la nostra plutocrazia manovriera in Italia e fuori Italia».

Emergono dunque già due nemici dell'ancora embrionale progetto di socializzazione delle imprese: gli alti comandi tedeschi e i grandi industriali italiani.
Lo stesso giorno (11 febbraio 1944) Rahn invia in Germania un telegramma a Ribbentrop:
«Il ministro delle Corporazioni, Tarchi, è venuto a trovarmi oggi, e in risposta alle diffidenze tedesche, delle quali è al corrente, circa l'intento di mutare la struttura dell'economia, mi ha informato che la pubblicazione delle richieste fondamentali del Partito Fascista Repubblicano al congresso di Verona e la continua discussione nelle recenti settimane sulla stampa italiana esigevano che si desse sanzione legale a questo programma. Il vecchio Partito fascista aveva fatto continuamente promesse che non aveva mantenuto. Non si doveva ora tornare a questo punto. La nuova legge rappresenterebbe un forte colpo alle influenze comuniste e bolsceviche alle quali, molto più dei loro colleghi tedeschi, sono esposti i lavoratori italiani. La stessa Germania deve certamente avere interesse ad appoggiare il governo fascista nella sua lotta contro le forze plutocratiche e comuniste nel paese».

Si intuisce quindi che l'Ambasciatore tedesco crede fortemente nell'utilità del progetto italiano e vuole darne il suo appoggio. Continua quindi:
«In risposta a una mia domanda, Tarchi mi ha dato i seguenti particolari sugli articoli della legge. Tutte le imprese italiane, sia società sia private, saranno incorporate nel caso abbiano un capitale d'investimento superiore a un milione o impieghino più di cinquanta persone. Il consiglio di amministrazione di una società sarà in futuro costituito in maniera che metà dei suoi membri siano eletti in assemblee di azionisti, mentre l'altra metà sarà composta dai rappresentanti del personale, cioè personale tecnico, impiegatizio e operai. Il direttore dell'impresa sarà nominato dai rappresentanti degli azionisti eletti dalle loro assemblee, e non può essere rifiutato dagli altri membri del consiglio di amministrazione. Il direttore è però responsabile non solo verso l'assemblea degli azionisti ma prima di tutto verso lo Stato per quel che riguarda la gestione dell'impresa e il raggiungimento delle quote di produzione fissate dall'impresa stessa. Se il direttore di un'impresa non riesce a mantenere i suoi obblighi, il ministro delle Corporazioni può sciogliere il consiglio di amministrazione, nominare un nuovo direttore e, se necessario, nominare un proprio commissario. Nelle imprese private la partecipazione del personale sarà assicurata dalla formazione di un consiglio di gestione con funzioni consultive, consistente in un tecnico, un impiegato e un operaio... Gli ispettorati del lavoro e i consigli provinciali dell'economia informeranno il ministro delle Corporazioni se le attività di un'impresa causano gravi intralci; il ministro delle Corporazioni potrà allora intervenire e se è necessario affidare la gestione della ditta a un membro della commissione consultiva. Nelle imprese di Stato metà del consiglio di amministrazione sarà composto dal personale. In tutte le aziende dello Stato o private, comprese nelle nuove regolamentazioni, il prodotto netto risultante dai bilanci dopo la deduzione degli utili dei proprietari, dei fondi riserva e dei dividendi degli azionisti, deve essere diviso tra il personale in proporzione ai loro salari o paghe, è ancora in discussione una proposta per limitare la quota di profitto assegnata al personale, per trasferire a un fondo, di compensazione statale, per il progresso delle istituzioni sociali, il surplus reso così disponibile. La mia richiesta di vedere il testo della legge prima che la riunione del gabinetto approvi il decreto è stata elusa dal ministro delle Corporazioni con la scusa che il Duce non lo aveva autorizzato a farlo circolare. Il Duce considera questo provvedimento come sua opera personale. Pensa di sottoporlo, personalmente al gabinetto e pubblicarlo quindi senza indugi... In conclusione, ho detto al ministro delle Corporazioni che mi sentivo costretto a protestare contro questa azione unilaterale da parte del governo italiano. Una legislazione fondamentale come questa tocca direttamente gli interessi tedeschi nell'industria bellica italiana, per non parlare del complesso delle relazioni di lavoro nel paese e nelle zone d'operazione. Anche se, giudicando da quel che aveva detto, questo provvedimento altro non era che un tentativo di riformare il codice commerciale italiano, nondimeno potrebbe avere nel paese delle ripercussioni politiche ed economiche molto vaste, che in ogni caso dovevano ottenere il previo consenso delle autorità militari tedesche e dei rappresentanti del Reich in Italia. In mancanza di questo, in futuro il governo italiano non doveva meravigliarsi se i tedeschi avrebbero proibito la pubblicazione e l'esecuzione dei decreti del gabinetto».

Ma Mussolini intendeva tirare diritto e pubblicare il provvedimento senza aspettare il permesso dei tedeschi (alla faccia del Governo fantoccio con cui la storiografia tradizionale italiana vorrebbe bollare l'esecutivo della Repubblica Sociale). Nello stesso giorno del colloquio di Tarchi con Rahn, quest'ultimo ricevette una lettera personale da Mussolini:
«Il ministro Tarchi mi ha riferito sul contenuto del colloquio che gli avete accordato ieri sera, circa la legge che domani sabato 12 sarà presentata da me al Consiglio dei ministri sulla socializzazione dell'impresa. Mi pare che ci sia la tendenza in taluni ambienti tedeschi a drammatizzare eccessivamente lo sviluppo di un processo storico che risale in Italia al 1906 quando Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti e che ha avuto realizzazioni più o meno ampie in tutti i paesi d'Europa, Germania compresa. Voi sapete, quanto me, caro Ambasciatore, che molti dirigenti dell'industria italiana attendono a braccia aperte gli anglo-sassoni e sono responsabili in gran parte del tradimento dell'otto settembre. Essi - vantando influenze in taluni ambienti germanici - vogliono svalutare la Repubblica Sociale, screditarla presso il popolo e favorire così da una parte il ritorno dei monarchici e dall'altra l'azione del comunismo, più o meno partigiano, da loro aiutato con ogni mezzo. Essi desiderano ardentemente una cosa sola: la vittoria degli anglo-sassoni, cioè la vittoria della plutocrazia alleata al bolscevismo. Non comprendere questo è puerile! Ora la legge sarà approvata e sarà divulgata immediatamente come sempre è accaduto per le decisioni del Consiglio dei Ministri durante venti anni. La sua pubblicazione, disperderà gli equivoci artificiosamente creati, chiarirà le idee e soprattutto mi darà modo di valutare le reazioni che la legge provocherà nelle diverse categorie interessate. La pubblicazione non significa la immediata applicazione della legge... Spero che queste modalità di procedura saranno sufficienti a ristabilire un più sereno apprezzamento della situazione e saranno tali da convincere tutti che in guerra le idee sono le migliori collaboratrici delle armi. Quaranta anni di esperienze politiche mi danno il diritto di fare questa affermazione».

Il tentativo di far naufragare il progetto della socializzazione, portato avanti dai due ambienti citati sopra, è percepito anche da Rahn,che precedentemente, il 10 febbraio, aveva telegrafato così a Berlino:
«Il piano del governo italiano per la ricostruzione dell'economia italiana, che è opera personale del Duce, ha sollevato considerevole disagio negli ambienti militari tedeschi, specie tra coloro che collaborano con il generale Leyers e gli esperti addetti presso di lui, probabilmente influenzati dagli industriali italiani. Ho continue richieste di impedire l'attuazione di questo progetto italiano e più particolarmente la promulgazione delle leggi e le relative regolamentazioni. Siccome so che il Duce ha discusso i suoi progetti con il Führer e anche con il ministro degli Esteri raggiungendo un accordo, e siccome sembrerebbe necessario liberare il fascismo dai suoi intralci plutocratici, sono restio a conformarmi alle richieste dei rappresentanti della RUK (commissione tedesca di armi e armamenti n.d.r.) nel modo radicale da essi voluto. Durante le conversazioni con il Duce, nelle quali gli ho fatto presente la necessità di una maggiore cautela e la necessità di raggiungere un accordo con le autorità tedesche prima di prendere decisioni fondamentali, ho incontrato sulle prime una resistenza che, pur essendo amichevole, era nondimeno definitiva. Il Duce affermava che l'atteggiamento degli industriali italiani, la maggioranza dei quali è segretamente favorevole all'Inghilterra, è responsabile degli insufficienti risultati raggiunti dall'industria italiana. I suoi progetti di riforma oggi incontrano le identiche obiezioni che furono avanzate nel 1906 quando era sorto il problema di nazionalizzare le ferrovie italiane, risolto poi con completo successo. Era inoltre evidente che le acciaierie e gli arsenali italiani, ora sotto il controllo del governo, e le aziende dirette dall'IRI avevano dato negli anni della guerra risultati migliori delle imprese private. Il Duce mi ha anche detto testualmente: “Sino ad oggi sono stato sempre estremamente cauto in materia economica e sono stato dell'opinione che mentre i metodi chirurgici possono spesso essere applicati in politica, quando si tratta di economia si devono applicare metodi medici o addirittura omeopatici. Se da tempo avessimo raggiunto un diretto controllo statale sull'intera industria bellica italiana non ci troveremmo ora di fronte a una situazione nella quale gli industriali segretamente nascondono alla Germania materie prime essenziali alla guerra e manufatti bellici per averli a portata di mano quando la guerra sarà finita. Naturalmente intendo agire nella più stretta armonia possibile con la Germania ma vi chiedo di dare ai miei progetti il vostro appoggio”. Il suo prossimo passo dovrebbe essere la nazionalizzazione dell'elettricità che egli desidera mettere sotto il diretto controllo dello Stato come impresa di utilità pubblica, poiché il notevole grado di confusione che prevale in questa sfera sta causando un arresto nell'industria. Tutti questi provvedimenti hanno il fine di elevare la produttività e di portare a un decisivo aumento della produzione bellica».

Si arriva dunque al 12 febbraio del '44, data in cui viene emanato il decreto sulla socializzazione delle imprese composto da 46 articoli.
Si presenta tuttavia, ad ostacolare la riforma, un nuovo nemico costituito dai gruppi partigiani comunisti che si metteranno in attività per sabotare l'esecuzione di qualsiasi programma socialista del nuovo governo fascista: temono infatti che il decreto sulla socializzazione attirare fortemente le masse operaie ostacolando il loro programma di imporre il comunismo in Italia.
Costoro iniziano dunque a predicare ai lavoratori che le riforme del fascismo sono solamente uno specchietto per allodole creato apposta per tenere calmo il proletariato.
Viene quindi organizzato uno sciopero generale per il primo di marzo, sciopero
«a carattere apparentemente economico, ma in effetti politico, di concerto con il movimento partigiano», come viene descritto all'ufficio politico della milizia di Torino; a promuoverlo era il «comitato segreto di agitazione per il Piemonte, la Lombardia e la Liguria», composto principalmente dagli elementi comunisti della resistenza.
L'epicentro fu Torino, ma vennero interessate anche Milano e Genova. Nella Fiat lo sciopero fu totale, ma non così accadde nelle altre grandi imprese. Tuttavia gli scioperanti e i partigiani attuarono tutta una serie di azioni di sabotaggio ( da esempio l'interruzione delle ferrovie della provincia di Torino) per impedire che gli operai raggiungessero i posti di lavoro.
Gli scioperi si ripetono anche più avanti. Un rapporto della polizia di Torino dice:
«I motivi degli scioperi sono i più disparati; ogni spunto e sufficiente per determinarne uno, ogni occasione è buona per attuarlo...Attendono i russi e parlano di Stalin come di un padre, i più scettici dicono che tutto han già provato tranne il comunismo, quindi desiderano provarlo. Oltre quest'idea non c'è altro. Difatti l'operaio in definitiva non sa perché sciopera. Ciò che è logico dedurre dalla situazione è che gli scioperi sono diretti ed organizzati, ma da chi?».

I tedeschi reagiscono bruscamente a questi scioperi ed il 6 marzo giungono ordini personali di Hitler di deportare il 20 per cento degli scioperanti per adibirli ai lavori in Germania.
Tarchi sospettava che che esistesse una sorta di alleanza tra gli industriali e i comitati d'azione per impedire la socializzazione delle imprese.
D'accordo con gli industriali erano pure le autorità economiche tedesche in Italia.
Un quarto ostacolo fu costituito infine dagli svizzeri, i cui investimenti rappresentavano nella Repubblica Sociale un quarto dell'intero capitale investito.
Il 4 aprile giunse dal rappresentante commerciale svizzero il seguente avvertimento:
«...Basti ricordare l'attrattiva che lo sviluppo economico e industriale dell'Italia settentrionale ha sempre avuto per il risparmio e per gli industriali svizzeri, segnatamente nei settori della chimica, dei tessili e dell'elettricità... La partecipazione del capitale e del lavoro svizzero nell'incremento considerevole dell'industria dell'Italia del Nord assume un'importanza tale che non costituisce affatto sorpresa la reazione vivissima suscitata nella Svizzera dalle misure previste dal Governo repubblicano fascista...Così stando le cose, le Autorità federali non dubitano che il Governo fascista repubblicano vorrà esentare le imprese svizzere dalle misure che intende prendere».

Nonostante tutti gli inconvenienti, Mussolini fece rendere esecutiva la legge per il 30 di giugno.
A proposito Rahn riporta:
«... il Duce mi ha dichiarato che egli si è ormai deciso a far entrare in vigore il 30 giugno la legge sulla socializzazione. Con riserva di una ulteriore decisione del Governo del Reich, io chiesi che in nessun caso le aziende protette venissero incluse nella socializzazione, senza l'accordo tedesco. Il Duce mi assicurò su questo punto....»

Tarchi, un anno dopo, scriverà:
«Il Governo de1la Repubblica si è trovato, perciò, da un lato, in lotta contro le forze del capitalismo, immediatamente messe in linea contro la legge; d'altro lato a condurre questa lotta solo, senza adeguato appoggio e comprensione da parte delle masse lavoratrici».

Di fronte a questi ostacoli insormontabili il progetto di attuazione della socializzazione delle imprese subì un arresto nell'estate del '44.
La madre di tutte le riforme sociali annegava senza aver avuto colpe.
Il 25 aprile 1945, data che taluni definiscono “della liberazione”, vedrà come primo atto legislativo del Governo di liberazione nazionale l'abrogazione del decreto sulla socializzazione delle imprese.

Giacomino Timillero

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