mercoledì 16 settembre 2009

Partecipazione degli operai agli utili aziendali: una "novità" vecchia di 65 anni!

In queste ultime settimane hanno suscitato interesse e scalpore le affermazioni del Ministro dell'Economia Giulio Tremonti in merito alla possibilità di rendere partecipi i lavoratori alla distribuzione degli utili aziendali. Da svariate parti si sono levati cori di elogio verso la "novità" che dovrebbe portare al superamento della lotta di classe.
In verità questi temi non sono affatto un cosa nuova, ma sono stati introdotti dal Governo della Repubblica Sociale Italiana quasi settant'anni fa!

Infatti il 12 febbraio 1944 veniva emanato il Decreto sulla Socializzazione delle imprese: tutte le imprese a carattere pubblico e quelle private con più di cento operai, o capitale superiore ad un milione di lire venivano, "socializzate".
La socializzazione di un'impresa consisteva nella partecipazione della classe lavorativa alla redistribuzione degli utili ed all'amministrazione aziendale.
Nel testo del decreto si poteva infatti leggere: "Gli utili dell’impresa... verranno ripartiti tra i lavoratori, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi, in
rapporto all’entità delle remunerazioni percepite nel corso dell’anno"; " All’assemblea partecipano i rappresentanti dei lavoratori, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi, con un numero di voti pari a quello dei rappresentanti del capitale intervenuto. Il consiglio di gestione, nominato dall’assemblea, è formato per metà di membri scelti fra i lavoratori, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi".
Grazie a questa riforma il lavoratore non era più, quindi, una pura pedina usata dall'azienda, ma diventava parte integrale della stessa, sia per quanto riguardava le decisioni, sia per la redistribuzione degli utili.
A beneficiare di questo cambiamento non sarebbe stato solamente il dipendente, ma anche l'azienda: gratificato dal suo lavoro, l'operaio veniva invogliato a lavorare con più zelo perché di ciò ne avrebbe avuto poi un tornaconto. Tutto l'opposto del modello sovietico, che si poteva sintetizzare in "fai meno che puoi, tanto è lo stesso"!

Anche se il decreto recava la firma del ministro dell'Economia Corporativa Angelo Tarchi, il vero padre della riforma fu Nicola Bombacci.
Bombacci, amico di Mussolini durante le battaglie socialiste nei primi del novecento, diventò poi uno dei padri del Partito Comunista Italiano.
Dopo esser stato a fianco di Lenin venne espulso dal partito per aver promosso la collaborazione economica tra l'Unione Sovietica e l'Italia Fascista.
Allontanato dai suoi ex compagni ed odiato dai fascisti, seguì Mussolini nella Repubblica Sociale e cominciò a predicare coi suoi comizi una nuova svolta sociale.
I partigiani, trovatolo in auto assieme al Duce, lo appesero a Piazzale Loreto dopo averlo trucidato con l'appellativo di "supertraditore".
Negli odierni libri di scuola scolastici, redatti dalla sinistra, la figura di Bombacci è stata censurata.

Purtroppo la Socializzazione delle Imprese trovò numerosi nemici: i comunisti, che, non accettando che il fascismo emanasse questa riforma sociale, cercarono di convincere i lavoratori che si trattava di uno specchietto per allodole; i tedeschi, che vedevano in questa riforma un ostacolo per la produzione bellica; i grandi capitalisti svizzeri, che minacciarono di bloccare i finanziamenti nella RSI se la riforma avesse toccato le aziende di loro interesse; l'alta borghesia italiana, che non accettava di vedere ridimensionati i propri guadagni.
In un periodo difficilissimo, caratterizzato dalla guerra, dallo scarseggiare dei generi alimentari e delle materie prime, dagli scioperi organizzati dalla menzogna comunista, la Socializzazione delle Imprese trovò applicazione in poche realtà, come ad esempio la Mondadori.
Spaventati dalla "mina sociale" calata dal fascismo, la nuova Italia nata dalla resistenza emanava come primo decreto, il 25 aprile 1945, l'abolizione della Socializzazione delle Imprese: moriva così una delle più grandi conquiste sociali del proletariato.

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